Ad oggi, non è dimostrato sperimentalmente che il consumo di alimenti biotech possa essere nocivo alla salute dell'uomo (non è vero per quanto riguarda ad esempio i topi: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/10/08/uomini-e-topi/373909/). Abbiamo precedentemente affermato che la popolazione statunitense si nutre inconsapevolmente di tali alimenti da oltre dieci anni. Non si può, però, fare una valutazione accurata degli impatti sanitari degli OGM, poiché tutta la popolazione è indistintamente esposta. Un'accurata analisi epidemiologica presuppone una comparazione tra una porzione di popolazione alimentata esclusivamente con cibi geneticamente modificati, nella quale si tenga conto di determinati parametri (area di residenza, esposizione a inquinanti, distribuzione dell'età, comportamente e abitudini alimentari, stili di vita etc.) e una porzione di popolazione non alimentata con alimenti transgenici. Solo attraverso uno studio così preparato si può forse riuscire a definire i cambiamenti indotti dal consumo di OGM in campo alimentare.

Le preoccupazioni dei consumatori ruotano fondamentalmente intorno a tre questioni: la possibilità che gli OGM possano indurre allergie, che possano favorire la resistenza agli antibiotici grazie all'uso di questi ultimi come marcatori e che possano verificarsi dei rimaneggiamenti del DNA umano per l'ingestione di alimenti geneticamente modificati.
Relativamente alle allergie, la presenza del transgene può indurre un cambiamento nella composizione proteica di molti alimenti geneticamente modificati e, quindi, indurre la formazione di allergeni che possono provocare una risposta immunitaria nell'organismo e quindi scatenare l'allergia. Sono stati effettuati vari esperimenti in proposito, ma nessuno ha confermato incontrovertibilmente che la causa scatenante delle allergie sono i cibi geneticamente modificati. Le allergie dipendono in primis dalla predisposizione del singolo individuo.
Riguardo la seconda questione, quando s'inserisce un gene, con la caratteristica selezionata, nel DNA di una cellula ospite, si introduce, accoppiato ad esso, anche un gene marcatore (marker), cioè un gene che serve per identificare il punto sul DNA dove è avvenuta l'inserzione. Il marker è un po' come una bandierina su una cartina stradale, serve per far capire in che punto il DNA è stato modificato. Negli OGM di prima generazione furono utilizzati come marker geni di resistenza agli antibiotici. Questo creò non poche polemiche. Il rischio che animali nutriti con alimenti geneticamente modificati recanti questi marcatori trasferissero la resistenza all'antibiotico, a batteri patogeni rendendoli immuni, era elevato. L'uso di questi marcatori fu regolato dalla direttiva 2001/18/CE, recepita in Italia con il D.Lgs. 224/2003: i geni che esprimono una resistenza agli antibiotici utilizzati per trattamenti medici o veterinari devono essere rimossi entro il 31 dicembre 2008. Sembra, però, che l'impiego di geni di resistenza agli antibiotici, come marcatori, non desti preoccupazione nei paesi extra-europei, che non hanno ancora legiferato in proposito.
Infine, per la terza questione, se si dovesse verificare all'interno dell'organismo umano un'interazione tra un gene esterno e il genoma, si potrebbero riscontrare due situazioni: a) visto che il gene è portatore di una determinata caratteristica, che questa possa esprimersi nella cellula umana; b) una mutazione genetica. Da esperimenti effettuati, nel breve periodo, sembra di poter escludere interferenze quando i transgeni sono ingeriti con la dieta. Anche quando si è riscontrata la presenta di DNA estraneo, esso non er espresso e dopo un po' veniva degradato. La stessa cosa non si può dire per farmaci vaccini ottenuti via transgenica e somministrati per via intramuscolare, che mostravano un gene attivo per ben 17 mesi.