Iris germanica sbocciata nel nostro giardino #DoveSplendeIlSole
 

 Nella primavera della sua infanzia, Anselm scorrazzava per il verde giardino. Tra i fiori della mamma, ce n’era uno che si chiamava iris e che gli piaceva particolarmente. accostò la guancia alle lunghe foglie verde chiaro, passò le dita sui bordi taglienti, aspirò a fondo il profumo delle splendide corolle, vi guardò dentro. Dal fondo azzurrastro di questi si levavano file di dita gialle, e fra queste correva un sentiero più chiaro che sprofondava nel calice e nel lontano, azzurro segreto del fiore. Gli piaceva molto; continuò a osservare per ore e ore, e i sottili pistilli gialli gli apparivano ora come la siepe dorata del giardino del re, ora quale un duplice filare di begli alberi di sogno, non mossi da vento alcuno, tra i quali correva, chiara e striata di vive venature fragili come vetro, l’enigmatica strada. Sterminata era la superficie ricurva, e da un lato il sentiero si perdeva tra gli alberi d’oro, sprofondava all’infinito in un pozzo illimitato, sopra il quale la cupola violetta si arcuava regale, deponendo magiche, lievi ombre sulla meraviglia in silente attesa. Anselm sapeva che quella era la bocca della corolla; sapeva che, sotto splendide crescenze gialle, nella voragine blu abitavano il cuore e i pensieri del fiore, e che attraverso quella lieve luminosa strada percorsa da venuzze vetrose, andavano avanti e indietro il respiro e i sogni di questo. E accanto al fiore grande ve n’erano altri più piccoli, ancora non aperti, e si drizzavano su steli robusti, succosi dentro un piccolo calice fatto di una pelle verdebrunastra. Dal quale il boccio si slanciava con silente forza, strettamente avvolto di verde chiaro e lillà, ma in cima già faceva capolino, in forma di punta sottile, tenacemente, dolcemente arrotolato, il viola cupo. Anche su queste foglie-fiore compatte erano visibili venature e segni d’ogni specie.

Il mattino, quando Anselm usciva dalla casa, dal sonno, dal sogno e da mondi stranieri, ecco lì, non perduto e sempre nuovo, il giardino che lo attendeva e dove ieri se ne stava piantata rigida una dura punta di fiori azzurri, strettamente avvolta in una verde buccia, adesso pendeva, sottile, dello stesso colore dell’aria, un giovane petalo simile a una lingua e a un labbro, e a tastoni cercava la propria forma e la propria curvatura che a lungo aveva sognato, e nella parte inferiore, dove ancora era impegnato in una silenziosa lotta con la sua scorza, già si intuiva una sottile escrescenza gialla, una pista lucente, venata e un lontano, profumato pozzo dell’anima. Forse già nel meriggio, oppure la sera, il fiore sarebbe stato completamente dischiuso, arcuando un’azzurra tenda di seta sopra un dorato bosco, illusorio, e suoi primi sogni, pensieri e canti spiravano, silenziosi, dalla fatata voragine.

Venne un giorno in cui, tra l’erba, non ci furono che due campanule azzurre. E un giorno che nel giardino si rese percepibile all’improvviso un nuovo timbro e un nuovo profumo, e tra il fogliame rossastro investito dal sole, spiccava, tenera e gialla, la prima rosa tea. E un giorno non vi furono più iris. Erano scomparsi, nessun sentiero bordato d’oro conduceva più dolcemente negli odorosi segreti del profondo, foglie rigide si drizzavano, estranee, acuminate e fredde. Ma bacche rosse erano maturate tra i cespugli, e sugli astri svolazzavano nuove farfalle mai viste prima, libere e gioconde, sciami rossobruni di insetti dal dorso iridescente e dalle vibranti ali vetrose.

Anselm chiacchierava con le farfalle e con la ghiaia, aveva per amici lo scarabeo e la lucertola, gli uccelli gli raccontavano aeree favole, felci gli mostravano in segreto, nascosti sotto il tetto di enormi foglie, i semi bruni addensati, cocci di vetro verdi e cristallini catturavano per lui i raggi del sole e diventavano palazzi, giardini, scintillanti tesori. I gigli erano scomparsi? Fiorivano allora i nasturzi; le rose tea appassivano? Le more erano brune, tutto si scomponeva, era sempre presente e sempre scompariva, moriva e, col tempo, ricompariva, e anche le terribili e meravigliose giornate in cui il vento freddo rombava nell’abete e in tutto il giardino le foglie appassite frusciavano false e morte, portavano pur sempre una canzone, un’esperienza, una storia, finché tutto cedeva, la neve si posava sui davanzali delle finestre e sui vetri crescevano palmeti, la sera era percorsa da angeli coi campanelli d’argento, e anticamera e pianterreno sapevano di frutta secca, Mai l’amicizia e la fiducia si spegnevano in quel modo bonario, e quando inaspettatamente i bucaneve tornavano a splendere accanto alla nera edera e i primi uccelli volavano per il nuovo cielo azzurro, era come se tutto fosse sempre stato lì, presente. Finché un giorno, inaspettato e tuttavia sempre tale e quale doveva essere, e tale e quale lo si desiderava, un primo boccio azzurro pallido faceva capolino sullo stelo degli iris.

Tutto era bello, tutto era accolto con giubilo da Anselm, tutto gli era amico e familiare, ma il momento magico supremo, la grazia, era ogni anno il primo iris. Nel suo calice chissà quando, forse nel primissimo sogno infantile, aveva compitato il libro delle meraviglie, il suo profumo e il mutevole azzurro sbandierante erano stati per lui il primo richiamo e la chiave della creazione. E così l’iris continuò a procedere al suo fianco per tutti gli anni dell’innocenza, e ogni nuova estate era nuovo, più misterioso e commovente. Anche altri fiori avevano voce in capitolo, anche altri attiravano api e scarabei nei loro piccoli, dolci ricettacoli. Ma l’iris azzurro era caro al bambino più di ogni altro fiore, e gli appariva importante perché ai suoi occhi costituiva il parametro e l’esempio di tutto ciò che è degno e di nota e oggetto di meraviglia. Quando affondava lo sguardo nel suo calice e, trasognato, seguiva il sentiero lucente e insieme i suoi pensieri, andando tra i gialli stupendi filari alla volta della crepuscolare intimità del fiore, la sua anima affondava lo sguardo oltre la soglia in cui ciò che appare diviene enigma, e il vedere si trasforma in intuire. Anche la notte, a volte, gli capitava di sognare il calice del fiore, e lo vedeva spalancarglisi davanti enorme a guisa del portone di un celeste palazzo, ed egli correva in groppa a cavalli, lo percorreva in volo sul dorso di cigni, e insieme a lui volava, cavalcava e scivolava il mondo intero, sommessamente attratto dalla magia, e Anselm scendeva sempre più a fondo, sempre più a fondo nel soave abisso, dove ogni attesa diventava esaurimento, ogni presentimento realtà.

Ciascuna apparizione sulla terra è un’allegoria, e ciascuna allegoria una porta spalancata attraverso la quale l’anima quando sia pronta a farlo, può penetrare nell’Intimo del mondo, dove tu e io, giorno e notte, siamo, sono tutt’uno. Non c’è essere umano al quale di tanto in tanto non capiti, durante la sua esistenza, di trovarsi di fronte all’uscio spalancato, a ognuno balena il pensiero che tutto il visibile sia una similitudine e che sotto la similitudine abitino lo spirito e la vita eterna. Certo, sono pochi quelli che vanno oltre la soglia e rinunciano alla bella apparenza che è qui per la realtà di quell’Intimo che hanno intuito. E così al bambino Anselm il calice del suo fiore apparve coma la domanda aperta, silenziosa, alla quale la sua anima con sorgivo presentimento proponeva una serena risposta. Poi, però, l’amabile molteplicità delle cose lo traeva con sé, in conversazioni e giochi con le erbe e le pietre, le radici, i cespugli, gli animaletti e tutti gli amici del suo mondo. Sovente sprofondava nella contemplazione di se stesso, si abbandonava alle meraviglie del suo corpo, avvertiva, a occhi chiusi, deglutendo, cantando, respirando, straordinarie emozioni, sentimenti e rappresentazioni nella bocca e nel collo, e anche là coglieva la presenza del sentiero e della porta tramite i quali si può passare di anima in anima. Stupefatto osservava le pregnanti figure colorate che spesso, a occhi chiusi, gli apparivano uscendo da un fondale color porpora, ed erano macchie se semicerchi blu e rosso scuro, intervallati da linee lucenti. A volte Anselm sperimentava, e ne sussultava di gioia e spavento, le innumerevoli connessioni tra occhi e orecchio, olfatto e tatto; per fugaci istanti, sentiva tonalità, suoni, vocali tramutarsi e divenire tutt’uno con rosso e blu, duro e molle; oppure annusando un’erba o una buccia verde si meravigliava constatando quanto straordinariamente vicini fossero odore e sapore e tanto spesso trapassassero l’uno e l’altro e si confondessero.

Tutti i bambini hanno di queste sensazioni, anche se non tutti con la stessa intensità e dolcezza, e in molti di loro tutto questo ben presto passa, è come mai si fosse verificato, e accade prima ancora che abbiano imparato a leggere le prime lettere dell’alfabeto. In altri, il segreto dell’infanzia si conserva a lungo, e un residuo, un’eco se la portano dentro finché hanno i capelli bianchi, fino ai tardi, stanchi giorni. In tutti i bambini, finché siano ancora immersi nel mistero, l’anima è senza posa occupata con l’unica cosa davvero importante, vale a dire loro stessi e l’enigmatico nesso tra la loro persona e il mondo circostante. Colui che cerca e il saggio giunti agli anni della maturità ritornano a queste occupazioni, ma per la maggior parte gli esseri umani dimenticano e abbandonano questo mondo interiore, il mondo di ciò che è davvero importante, e lo fanno assai prima e per sempre, e per tutta la vita errano nei policromi labirinti di preoccupazioni, desideri e mete, nessuna delle quali abita nel loro intimo, nessuna delle quali li riconduce alla loro interiorità, a casa. L’estate e l’autunno di Anselm giungevano soavi e se ne andavano inavvertiti, e di continuo fiorivano e sfiorivano bucaneve, violette, la pervinca e la rosa, il sempreverde e il giglio, belli e abbandonati come sempre. Con essi viveva, fiori e uccelli gli parlavano, l’albero e la fonte stavano ad ascoltarlo, e Anselm offrì al solito modo la prima lettera che seppe scrivere, i suoi primi slanci di amicizia, al giardino, a sua madre, alle pietre colorate al bordo dell’aiuola.

Una volta, però, venne una primavera che aveva suoni e odori diversi da tutte le precedenti, il merlo cantava ma non era più l’antica canzone, l’iris azzurro fiorì ma né sogni né figure di fiaba passavano lungo il sentiero bordato d’oro del calice. Le fragole ridevano nascoste tra ombre verdi e le farfalle fluttuavano balenando sugli altri corimbi, ma nulla era più come sempre, altre cose interessavano al fanciullo che adesso aveva frequenti litigi con la madre.

Lui stesso non sapeva più chi era e perché qualcosa gli facesse male e qualche altra di continuo lo turbasse. Si avvedeva soltanto che il mondo era mutato, e le amicizie di un tempo si allontanarono da lui e lo lasciarono solo. Trascorse così un anno, e poi un altro ancora, e Anselm non era più un bambino e le pietre colorate al margine dell’aiuola erano noiose, i fiori muti, gli scarabei li teneva infissi mediante spilli in una scatola, e la sua anima aveva imboccato una lunga, ardua strada tortuosa, i vecchi amici erano inariditi e disseccati.

Il giovane uomo penetrava impetuoso nella vita, che solo allora gli sembrava iniziare. Dissipato e dimenticato era il mondo delle allegorie, nuovi desideri e nuove strade lo attraevano. L’infanzia ancora restava, come un profumo, nello sguardo azzurro e nei soffici capelli, ma il giovane uomo più non amava quel che essa gli ricordava, e si tagliò i capelli a spazzola, e nel suo sguardo mise tutta l’acutezza e il sapere che poté. Frettolosamente si precipitava attraverso anni di inquietudine e di attesa, ora bravo studente e buon amico, ora invece solo e scontroso; e a volte ancora sfrenato e chiassoso nelle prime gozzoviglie giovanili. La patria aveva dovuto lasciarla e la vedeva solo in occasione di rare, brevi visite, quando, mutato, cresciuto, azzimato, tornava dalla madre. Portava con sé amici, portava con sé libri, sempre diversi, e quando passeggiava per il vecchio giardino esso gli appariva angusto e rispondeva col silenzio ai suoi sguardi distratti. Più non leggeva vicende nelle venature policrome delle pietre e delle foglie, più non vedeva Dio e l’eternità abitare nel fiorito segreto dell’iris azzurro. Anselm fu scolaro, fu studente. Tornò in patria con in capo un berretto rosso prima e poi uno giallo, con un accenno di baffetti e poi una rada barbetta. Aveva con sé libri in lingue straniere, e una volta portò con sé un cane, e in un portafoglio che teneva nella tasca interna aveva poesie subito dimenticate, oppure trascrizioni di antichissime saggezze, o ancora ritratti e lettere di belle ragazze. Tornava, ed era stato lontano, in paesi stranieri, aveva vissuto a bordo di grandi navi e sul mare. Tornava, ed era un giovane sapiente, portava un cappello nero e guanti scuri, e i vecchi vicini lo salutavano togliendosi il cappello e lo chiamavano professore, sebbene ancora non lo fosse. E ancora tornò, questa volta vestito di nero, e andò, snello e compreso, dietro il lento carro sul quale la sua vecchia madre giaceva in un’ornata bara. E dopo di allora tornò solo assai di rado.

Nella grande città dove adesso insegnava agli studenti ed era considerato un celebre uomo di scienza, Anselm viveva, passeggiava, sedeva e stava esattamente come le altre persone, con indosso un bell’abito, in testa un bel cappello, serio oppure allegro, con occhi intenti e a volte un pochino stanchi, ed era un signore ed uno studioso, esattamente colui che era voluto diventare. Adesso si trovava in una condizione simile a quella dell’ultimo periodo della sua infanzia: all’improvviso sentì che molti anni gli erano scivolati alle spalle, e si ritrovò, singolarmente solo e scontento, nel bel mezzo di quel mondo al quale aveva sempre aspirato. Non era proprio una felicità, essere professori; non era una gioia senza ombre, essere salutato con deferenza da cittadini e studenti. Tutto gli appariva come vizzo e polveroso, e la felicità tornava ad apparirgli lontana, laggiù nel futuro, e la strada che vi portava sembrava afosa, impolverata, volgare.

In quel periodo, Anselm frequentava spesso la casa di un amico dalla cui sorella si sentiva attratto. Ormai non correva più tanto spensieratamente dietro un bel viso, anche sotto questo aspetto si era fatto diverso, e aveva l’impressione che la felicità per lui dovesse manifestarsi in maniera particolare e che non la si potesse certo trovare al primo angolo di strada. La sorella dell’amico gli piaceva molto, e spesso si immaginava di amarla di tutto cuore. Lei però era una strana ragazza: ogni suo passo, ogni sua parola avevano un colore e un’impronta particolari, e non sempre era facile procedere al suo fianco, al suo stesso ritmo. Quando a volte Anselm la sera nel suo alloggio solitario camminava su e giù, pensieroso, e udiva risuonare il proprio passo nelle stanze vuote, gli capitava di contendere a lungo con se stesso a causa dell’amica. Aveva più anni di quanti Anselm ne avrebbe desiderati nella propria moglie. Era diversa dalle altre, per lui sarebbe stato difficile viverle accanto e insieme seguire le sue dotte ambizioni perché lei non voleva neppure sentirne parlare. Come non bastasse, non era molto robusta né sana, sì che a fatica sopportava la compagnia e le feste. Preferiva starsene, con fiori e musica, e magari un libro, chiusa in un singolare silenzio, in attesa che qualcuno si recasse da lei, e lasciava che il mondo proseguisse per la sua strada. A volte era in uno stato di così delicata sensibilità, che tutto quanto era estraneo le faceva male, la induceva al pianto. Poi, però, tornava a raggiare, tranquilla e bella, di una solitaria felicità, e chi la vedeva sentiva quanto fosse difficile dare qualcosa a codesta donna bella e singolare, quanto arduo fosse significare qualcosa ai suoi occhi. Spesso Anselm si convinceva che lo amava, ma altrettanto spesso gli pareva che non amasse nessuno, per quanto soave e comprensiva si mostrasse con tutti e dal mondo pretendesse null’altro che di essere lasciata in pace. Lui però non voleva solo questo dalla vita e, se avesse avuto moglie, in casa sua dovevano essere brio e suoni e tavola imbandita.

“Iris”, le disse “cara Iris, se solo il mondo fosse diverso! Se null’altro esistesse all’infuori di un bello, tenero mondo di fiori, pensieri e musica, allora sì che non desidererei altro che di trascorrere tutta la mia vita accanto a te, ascoltando i tuoi racconti, facendo miei i tuoi pensieri! Già il tuo nome mi fa male, Iris è un nome meraviglioso, mi ricorda qualcosa ma non so esattamente che cosa.”

“Però sai almeno”, replicò lei, “che si chiamano così i giaggioli azzurri”.

“Sì”, esclamò Anselm, e avvertì una sensazione angosciosa “questo lo so benissimo, e già questo è assai bello. Ma ogni qual volta pronuncio il tuo nome, è come se volesse richiamarmi a qualcos’altro, non so che cosa, come se in me fosse collegato a ricordi profondissimi, lontanissimi, importantissimi, e tuttavia non so, non riesco a scoprire di che si tratta.”

Se ne stava lì, perplesso, sfregandosi la fronte, e Iris gli sorrise.

“Mi succede sempre così”, gli disse con quella sua voce da uccellino, “quando odoro un fiore. Perché ogni volta il cuore mi dice che al profumo è legato il ricordo di qualcosa di straordinariamente bello e prezioso, che un tempo mi apparteneva ma che ho poi perduto. E lo stesso avviene con la musica, e a volte con la poesia: all’improvviso, un lampo che dura un istante, come se scorgessi d’un tratto una patria perduta, in fondo a una valle, che però subito scompare ed è dimenticata. Caro Anselm, io credo che il significato della nostra presenza sulla terra sia in questo ricordare e cercare e udire lontane note perdute, oltre le quali sta la nostra vera patria.”

“Come parli bene”, commentò Anselm, e avvertì in petto un moto quasi doloroso, come se una bussola segreta indicasse, senza deviazioni, la sua meta remota. Ma si trattava di una meta affato diversa da quella che voleva dare alla sua esistenza, ed era questo che faceva male, ed era poi degno di lui sprecare la vita in sogni, ricorrendo belle favole?

Venne un giorno in cui il signor Anselm, tornato da un viaggio solitario, si ritrovò accolto dalla sua austera abitazione di studioso in maniera così fredda e opprimente, che corse a casa dell’amico, seriamente intenzionato a chiedere la mano della bella Iris.

“Iris”, le disse, “non posso continuare a vivere così. Tu sei stata sempre la mia buona amica, e devo dirti tutto. Non posso non avere una moglie, altrimenti la mia vita sarebbe vuota e senza senso, e chi potrei desiderare di avere in sposa, se non te, bel fiore? Mi vuoi, Iris? Avrai fiori quanti ne vorrai, avrai il più bel giardino che si possa avere. Vuoi essere mia?”

Iris lo fissò a lungo, con sguardo tranquillo, senza sorridere né arrossire, e fu con voce ferma che così gli rispose: “Anselm non sono sorpresa della tua richiesta. Tu mi sei caro, sebbene non abbia mai pensato di diventare tua moglie. Vedi, però, amico mio, io pretendo moltissimo da colui al quale dovrei legarmi in matrimonio, e le mie sono pretese maggiori di quelle di gran parte delle donne. Mi hai offerto fiori e sei animato da lodevoli intenzioni. Io però posso vivere anche senza fiori, persino senza musica, potrei fare a meno di tutto questo e di molto altro, se così deve essere. Di una cosa però non posso e non voglio privarmi: non potrò mai vivere, neanche un solo giorno, in modo tale che la musica dentro il mio cuore non abbia il primo posto. Se devo vivere con un uomo, costui deve essere una persona la cui musica interiore si accordi perfettamente con la mia, e perché la sua musica sia pura e in sintonia con la mia, è necessario che essa sia la sua unica aspirazione. Te la senti, amico mio? Così facendo, probabilmente non diventerai ancora più celebre, non raccoglierai allori, la tua casa sarà silenziosa e le rughe che da qualche anno scorgi sulla tua fronte dovranno affatto sparire. Eh, no, Anselm, temo che non vada proprio. Vedi, tu sei fatto in modo da doverti procurare sempre nuove rughe, da doverti imporre sempre nuove preoccupazioni, e quello che io penso e sono tu lo ami, lo trovi bello, ma per te, come per la maggior parte, si tratta solo di un grazioso giocattolo. Stammi però bene a sentire: tutto quanto adesso per te è un balocco, è la mia vita stessa, e dovrebbe essere anche la tua, e tutto ciò cui dedichi fatiche e cure per me è invece un giocattolo per il quale a mio giudizio non vale la pena di vivere. E io non cambierò mai, Anselm, perché vivo secondo una legge che è dentro di me. E tu potresti diventare diverso? E tieni presente che dovresti diventarlo, se vuoi che io sia tua moglie”.

Anselm tacque, sorpreso dalla volontà di Iris, che aveva tenuto per debole e leggera. Tacque e schiacciò senza avvedersene, con la mano contratta, un fiore che aveva tolto dal tavolo.

Allora Iris con dolcezza gli tolse il fiore di mano – e Anselm lo avvertì come un grave rimprovero – ed ecco che gli sorrise, come se insperatamente avesse trovato una strada per uscire dalle tenebre.

“Ho un’idea” disse sottovoce, arrossendo. “Forse la troverai un po’ strampalata, ti sembrerà un puro capriccio. Ma tale non è affatto. Vuoi che te la dica? E sei disposto ad accettare che sia questa idea a decidere del nostro avvenire”

Anselm guardò l’amica senza capirla, il volto pallido e aggrondato. Ma il sorriso di lei lo costrinse ad affidarsi alla donna e a dire di sì.

“Vorrei importi un compito”, riprese Iris fattasi d’un tratto di nuovo tutta seria.

“Fallo pure, è nel tuo diritto”, le concesse l’amico.

“Ecco, dunque la mia ultima, irrevocabile proposta”, riprese lei. “Sei disposto ad accettarla così come mi viene dal cuore, senza tentare di mercanteggiare, senza giocare a tira e molla, anche se non ne afferri subito il senso?”

Anselm lo promise. E allora Iris si alzò in piedi, gli porse la mando e disse: “Mi hai detto più volte che, quando pronunci il mio nome, ti torna il vago ricordo di qualcosa di dimenticato, che un tempo per te era importante e sacro. E’ un segno, Anselm, ed è ciò che ti ha attratto in me per tutti questi anni. Anch’io ritengo che dentro di te tu abbia smarrito e dimenticato qualcosa di importante e di sacro, che deve tornare a rivivere perché tu possa trovare la felicità e giungere alla meta che ti è destinata. Addio, Anselm! Come vedi, ti do la mano e ti prego di andartene e di cercare di ritrovare il tuo ricordo, quello che risveglia in te il mio nome. Il giorno in cui l’avrai ritrovato, sarò tua moglie, farò quello che vorrai, e non avrò altro desiderio che non sia il tuo”.

Sbalordito, Anselm avrebbe voluto replicare, farle capire che una simile pretesa era un puro capriccio, ma con uno sguardo Iris gli ricordò la sua promessa, ed egli tacque. Ad occhi bassi le prese la mano, se la portò alle labbra, uscì.

Molti erano stati i compiti che, in vita sua, aveva affrontato con successo, ma nessuno era stato così singolare, importante e tuttavia scoraggiante come quello impostogli da Iris. Giorno per giorno si lambiccava il cervello sino ad esserne sfinito, e sempre tornava il momento in cui, disperato ed adirato, concludeva che il compito era null’altro che un assurdo capriccio femminile, e decideva di rinunciarvi. Ma qualcosa nell’intimo suo si ribellava: un lievissimo, segreto dolore, un monito dolcissimo, quasi impercettibile. Quella voce sommessa, che gli si faceva udire dentro il cuore, dava ragione a Iris, avanzava la stessa pretesa.

Solo che il compito era troppo gravoso per l’erudito, il quale avrebbe dovuto ricordare qualcosa da tempo dimenticata: avrebbe dovuto ritornare ad estrarre, dalla ragnatela degli anni sepolti, un unico filo d’oro, avrebbe dovuto afferrare qualcosa e portarlo all’amata, qualcosa che non era nulla più che il grido smarrito di un uccello, una sensazione di gioia e di tristezza mentre s’ascolta una musica, alcunché di più sottile, fugace e incorporeo di un pensiero, più impalpabile di un sogno notturno, più impreciso di una nebbia mattutina.

A volte, quando, scoraggiato, si scrollava di dosso tutto questo, in preda al cattivo umore, ecco che, inaspettatamente, gli giungeva come un alito da un remoto giardino, ed egli sussurrava il nome di Iris, dieci, cento volte, sommessamente, come per gioco, così come si tocca, per udire una nota, una corda tesa. “Iris” mormorava “Iris” e con lieve pena sentiva qualcosa muoverglisi dentro, come accade che, in una vecchia casa da tempo abbandonata, una porta s’apra da sola, un armadio scricchioli. Sondava i propri ricordi, che aveva sempre creduto di portarsi dentro ben ordinati, e così facendo giungeva a straordinarie, sorprendenti scoperte. Il suo tesoro di memorie era infinitamente minore di quanto avesse supposto. Interi anni mancavano, gli apparivano vuoti come fogli intonsi quando vi poneva mente. Constatava di riuscire solo a fatica a ritrovare un’immagine chiara di sua madre. Aveva dimenticato affatto come si chiamasse una certa ragazza che da giovane aveva corteggiato con passione per un intero anno. Gli tornava alla mente un cane che un giorno, da studente, aveva comprato così, per ghiribizzo, e che per un certo tempo gli era vissuto accanto. Ma gli ci vollero parecchi giorni per riesumare il nome della bestiola.

Pieno di dolore, di una crescente tristezza e angoscia, il pover uomo s’avvedeva di quanto inconsistente e vuota fosse la vita che s’era lasciato alle spalle e che più non gli apparteneva, che gli appariva estranea e senza nessi con lui, come qualcosa che una volta si sia mandato a mente e della quale ora solo a fatica si riesca a recuperare vaghi frammenti. Prese a scrivere: voleva, riandando anno per anno al suo passato, mettere nero su bianco le sue esperienze di maggior momento, per averle saldamente in pugno. Ma quali erano le sue esperienze più importanti? Il fatto di essere divenuto professore? Di essere stato dottore, e prima studente, e prima scolaro? O che una volta, in tempi svaniti, questa o quella ragazza gli si era concessa? E, spaventato, sollevava lo sguardo dal foglio e si chiedeva se era quella, proprio quella e null’altro, la vita. E si batteva con la mano sulla fronte, e rideva, rideva.

Intanto il tempo passava, mai era trascorso così rapido e spietato. Un anno s’era volatilizzato e gli pareva di essere ancora esattamente dove si trovava nel momento in cui aveva lasciato Iris. Pure, in questo periodo era assai mutato, e tutti se ne avvedevano, ognuno lo sapeva. Agli occhi dei conoscenti si era fatto quasi estraneo, lo si trovava distratto, bizzoso e stravagante, godeva fama di eccentrico, di uomo da compatire un tantino perché era rimasto scapolo troppo a lungo. Accadeva che si dimenticasse dei suoi doveri e che i suoi allievi inutilmente lo aspettassero. Accadeva che se ne andasse per la strada tutto preso dai suoi pensieri e, sfiorando i muri delle case, raccogliesse con la giacca lisa la polvere dei davanzali. Molti erano dell’opinione che avesse cominciato ad alzare il gomito. Alle volte gli capitava di interrompersi nel bel mezzo di una lezione, con l’aria di chi cerchi di rammentarsi qualcosa, che sorridesse con un’espressione infantile e commovente che mai nessuno gli aveva conosciuto, poi riprendeva il suo dire con un calore e una partecipazione da cui molti si sentivano toccare il cuore.

Da un pezzo, in quella sua disperata ricerca di profumi e di scomparse tracce di anni lontani gli era balenato un nuovo significato, del quale tuttavia lui stesso nulla sapeva. Più e più volte gli era sembrato che dietro quelli che fino ad allora aveva chiamato ricordi si nascondessero altri ricordi ancora, così come su un’antica parete dipinta a volte accade che sotto le vecchie immagini ne sonnecchino nascoste altre, più antiche ancora, sulle quali le prime sono state tracciate. Si sforzava di rammentarsi qualcosa, come il nome di una città in cui aveva trascorso una giornata tra un viaggio e l’altro, oppure il compleanno di un amico, o qualcosa d’altro, e mentre scavando e frugando tirava fuori un pezzetto di passato, un calcinaccio, ecco che altro all’improvviso gli tornava alla mente. Lo investiva un soffio, quale un vento in un mattino d’aprile o in un giorno nebbioso di settembre, Anselm coglieva un profumo, avvertiva un sapore, percepiva oscure, dolci sensazioni, con la pelle, con gli occhi, col cuore; pian piano gli fu chiaro che doveva esserci stato, una volta, un giorno azzurro, caldo, oppure freddo, grigio, o un altro giorno qualunque, e l’essenza di quel giorno doveva essersi depositata in lui come un oscuro ricordo. Ma non riusciva a ritrovare, nel suo reale passato, il giorno di primavera o d’inverno che chiaramente odorava e sentiva, non c’erano nomi né numeri, forse era stato quand’era studente o forse ancora in culla, il profumo comunque era lì e Anselm sentiva in sé qualcosa di vivo, che non conosceva, che non poteva nominare né definire. A volte gli sembrava di poterli raggiungere, questi ricordi, addirittura al di là della vita, nel passato di un’esistenza precedente, sebbene l’idea lo facesse sorridere.

Molto trovò Anselm nei suoi vagabondaggi senza meta attraverso gli abissi della memoria. Molto trovò che lo commosse e lo toccò, e molto anche che lo spaventò e lo riempì d’angoscia, ma una cosa non seppe trovare, quello che il nome Iris significava per lui.

Una volta, tormentato dall’impossibilità di trovare, tornò alla sua vecchia patria, rivide i boschi e le strade, i sentieri e le siepi, rimise piede nel vecchio giardino della sua infanzia e sentì onde investirgli il cuore, il passato avvolgerlo come un sogno. Ne tornò silenzioso, rattristato. Si diede per malato, fece mandar via chiunque lo cercasse.

Uno però riuscì a farsi ricevere: il suo amico, che Anselm non aveva più visto dal giorno in cui aveva chiesto la mano di Iris. Costui venne e trovò Anselm magro e consunto, chiuso in quella sua grigia cella.

“Alzati”, gli disse, “e vieni con me. Iris vuole vederti.”

Anselm balzò in piedi.

“Iris! Che vuole da me? Oh, lo so, lo so!”

“Su dunque”, insistette l’amico, “vieni con me. Sta per morire, è malata da un pezzo.”

Andarono da Iris che giaceva su un divano, leggera e minuta come una bambina, e sorrideva lieta con gli occhi dilatati. Porse ad Anselm la bianca, lieve mano infantile, che si posò sulla sua come un fiore, e il volto di Iris era come trasfigurato.

“Anselm”, gli disse, “non sei arrabbiato con me? Ti ho imposto un gravoso compito; e so che lo hai perseguito con fedeltà. Continua a cercare, va per la tua strada fino a raggiungere la meta! Tu credevi di farlo per me, ed è invece per te che lo fai. Te ne sei reso conto?”

“L’avevo intuito”, le rispose Anselm, “e adesso lo so. E’ una lunga strada, Iris, e da un pezzo sarei tornato sui miei passi, ma non è possibile. Non so che ne sarà di me.”

Lei lo fissò negli occhi tristi e gli regalò un sorriso luminoso e consolante, e Anselm si chinò sulla mano sottile di lei e a lungo pianse, tanto che gliela bagnò tutta di lacrime.

“Che ne sarà di te” gli disse con una voce che non era più che il barlume di un ricordo, “questo non devi chiederlo. Hai molto cercato in vita tua. Hai cercato l’onore, hai cercato la felicità e il sapere, e hai cercato me, la tua piccola Iris. Tutte queste non sono state altro che belle immagini, ed esse ti abbandonano come ora io devo abbandonarti. Anche a me è accaduta la stessa cosa. Ho cercato di continuo, ed erano sempre belle, care immagini, che di continuo cadevano ed appassivano. Ora però non trovo più immagini, non cerco più nulla, sono tornata a casa, e devo fare ancora solo un piccolo passo per essere in patria. Anche tu ci verrai, Anselm, e allora non avrai più rughe sulla fronte.”

Era così pallida che Anselm gridò disperato: “Oh, aspetta, Iris, non andartene! Lasciami un segno in modo che io non ti perda del tutto”.

Lei annuì, allungò la mano e, da un bicchiere, prese e gli diede un giaggiolo azzurro appena sbocciato.

“Ecco prendi il mio fiore, l’iris, e non dimenticarmi. Cerca me, cerca l’iris, e arriverai da me.”

Piangendo, Anselm tenne il fiore tra le mani, e piangendo prese congedo. Quando l’amico lo mandò a chiamare, tornò e aiutò a ornare con fiori e a inumare la bara di Iris.

Poi, la vita dietro di lui crollò, gli parve ormai impossibile continuare a dipanare quel filo. Rinunciò a tutto, abbandonò la città e si perdette nel mondo. Fu visto qua e là, ricomparve nel luogo natio e si protese oltre la siepe del vecchio giardino, ma quando la gente chiedeva di lui, a lui si interessava, subito tornava a scomparire. I giaggioli continuavano a essergli cari. Spesso si chinava su un iris, ovunque lo trovasse, e quando affondava a lungo lo sguardo nel calice gli pareva che dal fondo azzurrastro sorgesse verso di lui il profumo e il sentore di tutto il passato e il futuro, finché continuava triste per la sua strada, perché il compimento mai si verificava. Aveva l’impressione di starsene a origliare a un uscio semiaperto, dietro il quale udiva respirare amabilissimi segreti, e proprio quando pensava che tutto dovesse concederglisi e compiersi, ecco che la porta si chiudeva e il vento del mondo soffiava gelido sulla sua solitudine. Nei suoi sogni gli parlava la madre, di cui sentiva vicini la figura e il volto con una chiarezza che gli era stata ignota per lunghi anni. E Iris gli parlava, e quando Anselm si svegliava gli restava un eco su cui indugiava a riflettere per l’intera giornata. Non aveva un focolare; straniero andava qua e là per il paese, dormiva ora sotto un tetto, ora all’aperto nei boschi, si nutriva di pane e di bacche, bevevo vino oppure rugiada dalle foglie dei cespugli, che cosa ne sapeva lui? Agli occhi di molti era un pazzo, a quelli di molti altri un mago, molti lo temevano, molti ridevano alle sue spalle, molti lo amavano. Imparò ciò che mai aveva saputo fare prima, stare con i bambini e prendere parte ai loro strani giochi, parlare con un ramoscello spezzato e con una pietruzza. Inverno ed estate gli scorrevano accanto, Anselm guardava dentro i calici dei fiori, nell’acqua del ruscello e del lago.

“Immagini”, diceva a volte tra sé, “null’altro che immagini.” Ma nel suo intimo avvertiva un’essenza che immagine non era, e la seguiva, e l’essenza dentro di lui a volte riusciva ad esprimersi in parole, e la sua voce era quella di Iris e di sua madre, e per Anselm era consolazione e speranza.

Gli accadevano cose meravigliose che non lo meravigliavano affatto. E così gli capitò una volta di andarsene tra la neve, in un paesaggio invernale, e aveva la barba tutta ghiacciata. E dalla neve si levava, acuminato e snello, uno stelo di giaggiolo che reggeva un unico, bel fiore, e Anselm si chinò sul fiore e sorrise, perché adesso finalmente sapeva a che cosa l’avesse di continuo richiamato l’iris. Riconobbe il suo sogno infantile, e vide, tra i bastoncelli dorati, il sentiero azzurro chiaro venato che portava nel segreto e nel cuore del fiore, e capì che lì era ciò che cercava, lì stava l’essenza che non è più immagine.

E una volta ancora fu sollecitato da pulsioni, sogni lo guidarono e giunse a una capanna dove c’erano dei bambini, e i bambini gli diedero del latte, Anselm giocò con loro e quelli gli raccontarono storie, tra l’altro che nel bosco, dove stavano i carbonari, era accaduto un miracolo. Si era vista spalancarsi la porta degli spiriti, che si apre solo una volta ogni mille anni. Anselm stette ad ascoltare, annuendo alla cara immagine, e riprese il cammino, un uccello cantava da un fitto di ontani, l’uccello aveva una strana, dolce voce, che era come quella della defunta Iris. Seguì l’uccello che continuò a volare e a saltellare, sempre più davanti, di là dal ruscello, dentro i boschi.

Allora l’uccello si tacque e non lo si udì più né più lo si vide, Anselm si fermò e si guardò intorno. Si trovava in una profonda vallata nel bosco, oltre il fitto fogliame scorreva sommessa un’acqua e a parte questo tutto era silenzioso, in attesa. Nel suo petto, però, l’uccello continuava a cantare con la voce amata, e continuò a sospingerlo innanzi, finché Anselm si ritrovò davanti a una parete rocciosa coperta di muschio e nel mezzo si apriva una fenditura che conduceva, bassa e stretta, all’interno del monte. Un vecchio sedeva davanti alla fenditura, e costui s’alzò vedendo avanzare Anselm e gridò: “Indietro, uomo, indietro! Questa è la porta degli spiriti. Nessuno è ancora tornato che vi sia penetrato”.

Anselm volse lo sguardo a lui, poi tornò a posarlo sull’apertura nella roccia e vide perdersi nelle profondità del monte un azzurro sentiero, d’ambo i lati del quale si levavano fitte, dorate colonne, e il sentiero sprofondava come nel calice di un enorme fiore.

Nel suo petto l’uccello cantava con voce argentina, e Anselm superò il guardiano della soglia, penetrò nello spacco e avanzò, tra le colonne dorate, nell’azzurro segreto delle profondità. Era nel cuore di Iris, che penetrava, ed erano i giaggioli nel giardino della madre nel cui azzurro calice procedeva librandosi, e mentre sereno andava incontro al crepuscolo dorato, ecco all’improvviso tornargli tutti i ricordi e intera la coscienza; si toccò la mano ed era piccola e morbida, voci d’amore gli risuonavano vicine e famigliari all’orecchio, e le note erano tali e quali, le colonne dorate splendevano come allora, nelle sue primavere infantili, quando tutto per lui era luci e suoni.

E anche il suo sogno era tornato, il sogno che aveva fatto da piccolo, quando s’era visto scendere nel calice e dietro di lui procedeva e scivolava l’intero mondo delle immagini, sprofondando nel segreto che sta dietro tutte le immagini.

Anselm cominciò a cantare sottovoce, e il suo sentiero scendeva piano piano ed era a casa.





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